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Giuseppe Ungaretti

 

Vita e Opera

 

Ungaretti: l’uomo e il poeta Giusy C. Oddo Assoc. Professor Emerita University of British Columbia

Se, come dice Ezra Pound, "la grande poesia è semplicemente linguaggio carico di significato al massimo grado possibile", non c'è dubbio che Ungaretti meriti un posto d'onore nella "grande poesia" dei nostri tempi. Fin dagli inizi, scopre infatti "come la parola dovesse chiamarsi a nascere da una tensione espressiva che la colmasse della pienezza del suo significato". E nella continua coscienza che "ogni poesia nuova è anche scoperta di nuove possibilità di linguaggio", mira a trasferire la parola poetica in una "sfera di meraviglia quasi primigenia", allontanandola da ogni traccia della retorica dominante nella tradizione poetica italiana, e realizzando così "la suprema aspirazione della lirica moderna"; cioè il bisogno di un nuovo modo di dire le cose per parlare all'uomo del nostro secolo. Quando nel 1916, in piena Prima Guerra Mondiale, venne pubblicata la sua prima raccolta di poesie, Il Porto Sepolto, fu un'apparizione folgorante. Quella poesia "pura", di una immediatezza nuova, a cui tutti i giovani poeti avevano aspirato, e su cui avevano teorizzato in ferventi dibattiti e dichiarazioni di poetica, veniva all'improvviso offerta “dal di fuori”, cioè da un poeta italiano, sì, ma solo d'origine, perché nato in Egitto, e che in Italia aveva messo piede per la prima volta a 24 anni, per andarvi a combattere. Ungaretti ridava alla parola una nuova risonanza, distillando in forme concentrate e intense la sua poesia definita da Jorge Guillén "così sobria, così precisa, con la sua frase così concisa in mezzo al silenzio degli spazi bianchi". Solo un grande poeta poteva infatti portare a vera vita quel "frammento lirico" con il quale in Italia ci si era inadeguatamente cimentati. Ma se non c'è dubbio che ogni creazione poetica è un'espressione totalmente individuale, anche le manifestazioni più improvvise e originali presuppongono una lunga preparazione e non possono prescindere dalle influenze di uno sforzo comune, che è tanto più evidente in un momento di crisi. L'opera poetica di Ungaretti costituisce una pietra miliare nella storia della letteratura italiana non solo per i personali risultati artistici ma anche per la posizione significativa che occupa nella comune ricerca di una forma poetica nuova. E tanto più valido apparirà il suo contributo proprio se confrontato e inquadrato in quel momento in cui, agli inizi del secolo, in tutti i campi artistici (letteratura, pittura, musica) gli animi si dibattevano alla ricerca di forme espressive che meglio coincidessero con la nuova realtà, con il ritmo frenetico e angoscioso del nostro secolo. Ungaretti esprime dunque anche l'anima del suo tempo, riflettendone i più tormentosi conflitti e, profittando "della libertà che era già nell'aria", secondo le parole dell'altro grande poeta ermetico, Montale, fece uscire la poesia italiana dal suo provincialismo, inserendola nel quadro della letteratura europea. Agli inizi del secolo scorso, la scena poetica era ancora dominata in Italia dalle preponderanti personalità di Carducci, Pascoli e D'Annunzio, che esercitarono una forte influenza letteraria e spirituale fino alla Prima Guerra Mondiale. Ma benché fossero altisonanti, erano le ultime voci di un mondo che andava scomparendo. Con le sue romantiche celebrazioni storiche e l'aulica versificazione di stampo neo-classico, Carducci offriva un campo ben sterile per i poeti del Novecento. Quanto alla storia poetica di Pascoli e D'Annunzio, essa rientra nei nel Decadentismo europeo, quindi non si possono ignorare suggestioni più moderne di poesia in certe forme di ripiegamento interiore di questi due poeti, nella tensione allusiva della parola, nel flusso libero dell'immaginazione che spezza la sintassi poetica tradizionale. In Pascoli il verso si fa già singhiozzante, si frantuma, si scioglie in onomatopee, mentre il linguaggio si ripiega in toni intimi e confessionali. Resta tuttavia per i giovani l'insofferenza verso un linguaggio ancora costretto nelle forme metriche tradizionali, verso lo stucchevole sentimentalismo di Pascoli, verso i toni aulici del linguaggio dannunziano. La nuova sensibilità aperta ai mutamenti dei tempi non può che ribellarsi a tanta retorica. Il primo senso di stanchezza e di esaurimento sentimentale si può cogliere, come è noto, nei toni della cosiddetta poesia "crepuscolare", termine perfettamente adeguato non solo alla prevalente malinconia del canto, ma ad una voce poetica che segna il crepuscolo di un mondo. Corazzini e Gozzano, per nominare i maggiori, sono, come è stato detto, "uomini senza miti" che con la sottile ironia del loro idioma, volutamente dimesso e prosastico, corrodono il tempio della letteratura aulica sorretto dai grandi maestri. Voce disillusa di un momento di transizione in cui si conclude la crisi di un'epoca. Sono i poeti crepuscolari che con questo nuovo atteggiamento dello spirito gettano il seme per un'epoca di rinnovamento. Quando interviene Ungaretti, era già passata sulla scena italiana la furia della battaglia futurista lanciata a Parigi dalla voce di Marinetti, che dalle pagine del "Figaro" proclamava la sua ribellione alla tradizione e al culto del passato col famoso "Manifesto del futurismo" del 1909, che coinvolgeva tutte le arti; e più specificamente incitava alla distruzione del linguaggio poetico col "Manifesto tecnico della letteratura futurista" del 1912, in cui proponeva la nuova sintassi delle "parole in libertà", unite da rapporti analogici sempre più profondi e lontani (eco delle tecniche già applicate dai simbolisti francesi). Ungaretti andava maturando la sua coscienza poetica in questo generale movimento di ricerca espressiva e non può evitare di respirare quel fervore di risveglio che era nell'aria, né si può intendere la sua poesia al di fuori dei risultati già raggiunti. Resta però il fatto che delle entusiastiche aspirazioni di questa stagione letteraria non era rimasto in effetti proprio altro che qualche "frammento", colmo di un'apparente libertà di linguaggio più che di una effettiva ricchezza di espressione, quando si delinea sulla scena la poesia ungarettiana. Quanto alla programmazione schematica dei futuristi, era rimasta appunto al livello di programmazione, di teoria, senza nessun risultato poetico. Il rifiuto dei modi tradizionali, la ricerca della essenzialità della parola furono in lui motivati da una necessità etica prima che stilistica. L'espressione poetica diventa in Ungaretti un mezzo di conoscenza fino a toccare il mistero, l'essenza delle

cose. Da qui la necessità di liberare la parola dalle sovrastrutture convenzionali. Il poeta rompe il metro e il verso tradizionale per scioglierne le sillabe in musica. "La musica - come dice egli stesso - che porta a quel punto dal quale, sciogliendosi nel mistero, la poesia può ...illustrarsi d'innocenza". Siamo ben lontani dall'ironica discorsività crepuscolare come dall'aridità dei futuristi. Nel crepuscolo dei valori tradizionali, sia nella vita che nell'arte, spetta agli uomini più ricchi di genio e di sensibilità decretare la fine di un mondo e il sorgere di un altro. La ricerca del mistico valore della scrittura, più che influenze italiane, rivela in Ungaretti la consapevolezza d'un percorso già tracciato da Baudelaire e Mallarmé. Non bisogna infatti dimenticare che la formazione culturale del poeta sin dai primi anni di studi ad Alessandria d'Egitto fu profondamente francese. E quando nel 1912 lascia la città natale, è per andare a studiare a Parigi, dove frequenta corsi alla Sorbona e al Collège de France. A Parigi s'immerge con tutto l'entusiasmo del giovane studioso nel fervore culturale e artistico dell'epoca. Non solo viene a contatto col Futurismo e con Papini, Soffici, Palazzeschi, ma vi conosce i grandi pittori d'avanguardia come Picasso e Braque, e stringe una delle sue amicizie più importanti con Apollinaire, con il quale inizia un significativo dibattito sulle nuove poetiche. "Trovare una parola significa penetrare nel buio abissale di sé senza turbarne né riuscire a conoscerne il segreto", scriveva il poeta. Con Ungaretti si può parlare dunque di vera grande poesia moderna in quanto egli opera una prodigiosa esaltazione semantica del linguaggio. Il suo messaggio è il più denso ed espressivo che si possa immaginare. Egli frantuma ed isola la parola fino a ridurla a timbro sonoro, e saranno questi stessi echi sonori a tramutarsi in una nuova semantica. Oltre al "significato" razionale, letterale, la poesia emana un "senso", cioè un tipo di conoscenza che sfugge alla luce della ragione e che scaturisce dalla poesia secondo la efficace definizione di Marlena Fabris, come un "imprecisabile fluido".

M'illumino d'immenso (Mattina)

La poesia scritta così essenzialmente annulla il percorso fra parola e oggetto, fra parola e immagine, e ne va colto il senso nel lampo dell'intuizione. Si altera infatti il rapporto normale fra significante e significato. Al significante ordinario si sovrappone tutta una complessa articolazione di significanti supplementari: fonetici, timbrici e ritmici. I significati si allargano. Alla falsità del canto tradizionale, oramai inaridito in moduli fissi che coprono un vuoto, si sostituisce la verità della parola. Il discorso poetico viene fatto tramite la sintassi delle immagini e le mediazioni simboliche dei suoni, che vanno al di là della sintassi linguistica del periodo, e aggiungono echi infiniti alle frasi. Originali libertà espressive, audaci accostamenti offrono un modo inedito di esprimere esperienze e situazioni. La metafora, tipica del linguaggio poetico, assume una posizione fondamentale per definire la realtà, e diventa il ponte di lancio fra il piano della realtà e quello dell'ignoto.

Tra un fiore colto e l'altro donato l'inesprimibile nulla (Eterno)

La rivelazione è più misteriosa del mistero stesso. Non ci si inganni quindi sul significato di rivelazione. Rivelare non vuol dire ridurre il concetto in termini intelligibili. Il mistero sfugge alla ragione e alla parola razionale.

La prima esperienza che marchiò il giovane poeta fu quella della guerra, quando, già sulla via del ritorno in Egitto, si lasciò trascinare dalla campagna interventista in Italia e andò a combattere sul Carso come semplice fante. La sua poesia pura fu costretta allora a misurarsi subito con una realtà di fango e di sangue.

In agguato/ in queste budella/ di macerie ore e ore/ ho strascicato/ la mia carcassa usata dal fango . . . . (Pellegrinaggio)

Ma scoprirà anche come sia proprio la guerra che "obbliga l'animo umano a un'estrema nudità". Motivazione psicologica quindi, innanzitutto, in quell'estremo bisogno di immediatezza della sua poesia.

Andato a combattere volontario, spinto dall'esasperato patriottismo che nutre l'emigrante ("Patria fruttuosa, rinascevi prode,/ Degna che uno per te muoia d'amore."), Ungaretti non cadde però nella retorica dell'epoca che esaltava la guerra come impresa eroica (futuristi), come occasione di esaltazione individuale (D'Annunzio). La vide bensì come strage di massa, in cui l'uomo muore anonimo e solo il sentirsi fratelli unisce e dà valore alla morte. Insaccato nelle trincee, mediterà sulla vita, scriverà poesie. Nella precarietà angosciosa della vita di trincea dove "la morte si sconta vivendo", la meditazione poetica diventa continuo sforzo di catturare nell'istante una misura dell'eternità. "L'eternità si chiudeva nell'attimo" rammenterà il poeta. Tra una bomba e l'altra non c'era tempo per lunghe effusioni sentimentali, solo per aspre verità. Da quell'abisso dell'inconscio, da quella "notte" profonda, il poeta trae lo slancio con il quale può condensare nella parola poetica le zone luminose d'immagini della sua vita, in cui trova la propria identità e coscienza storica. Da qui l'importanza che nella poesia ungarettiana assume il tema della memoria. Memoria ancora intesa in termini bergsoniani, cioè non come nostalgica regressione dal presente al passato, ma al contrario come progresso dal passato al presente. I ricordi richiamati dal fondo della memoria formano il substrato della percezione presente, si trasformano nelle immagini che esprimono l'attuale momento poetico. "Mi desto in un bagno/ di care cose consuete". Attraverso un lavoro di concentrazione, la memoria raccoglie in un unico istante l'incalcolabile numero di piccoli eventi e riassume in una parola l'immensità di una storia. “Ho ripassato/ le epoche/ della mia vita Questi sono/ i miei fiumi.” Quando, nel 1912, Ungaretti lascia la sua città natale, Alessandria d'Egitto, lascia la vastità dei deserti africani per immergersi per la prima volta nella storia delle sue origini e delle sue radici culturali. Il momento di passaggio dall'inconsapevolezza dell'infanzia alla

matura presa di coscienza di sé e della vita. “Questo è il Nilo/ che mi ha visto/ nascere e crescere e ardere d'inconsapevolezza/ nelle estese pianure Questa è la Senna/ e in quel suo torbidomi sono rimescolato/ e mi sono conosciuto” (I fiumi). Solo conoscendo il suo animo formatosi nella libertà infinita degli spazi africani, si può capire a fondo il continuo anelito verso l'infinito che sottolinea la poesia di guerra dell’Allegria, quel bisogno di ritrovare nei cieli Alpini l’espansione del deserto. In chiave bergsoniana, la percezione del nuovo mondo che scopre è condizionata dal ricordo dell'Africa. Tutte le poesie dell'Allegria nascono dal sottile intrecciarsi di due mondi, due paesaggi, due esperienze, di cui l'una sottende e illumina l'altra: Il carnato del cielo/ sveglia oasi al nomade d'amore (Tramonto)

Dopo lo stato di contemplazione al di fuori del tempo e dello spazio raggiunto ne L'Allegria, il poeta sembra ridiscendere su questa terra e acquistare il sentimento del tempo. Questo titolo della seconda raccolta di poesie, che coprono il periodo dal 1919 al 1935, esprime il carattere più profondo di una nuova fase nell'esperienza del poeta. Dopo l'iniziale celebrazione dell'immediatezza, del concentrarsi della vita nell'attimo, il verso poetico e l'esperienza umana trovano un nuovo rapporto nell'approfondimento delle "stagioni" del tempo. L'Africa si fa sempre più lontana:

Conosco una città/ che ogni giorno s'empie di sole e tutto è rapito in quel momento . . . . . ho visto/ la mia città sparire/ lasciando/ un poco un abbraccio di lumi nell'aria torbida/ sospesi (Silenzio). Il mondo acquista ormai per Ungaretti il volto della Francia, dove si sposa, e dell'Italia, dove si stabilisce a Roma nel 1920. Quel senso del tempo senza limiti, immobile, indistruttibile, suggerito dalle piramidi perenni, da una civiltà millenaria, si trasforma in tempo storico, marcato dai segni delle civiltà diverse che si sovrappongono di secolo in secolo.

Il 1936 segna un ulteriore drammatico cambiamento di scena nella vita di Ungaretti: si trasferisce in Brasile dove gli è stata offerta la Cattedra di Letteratura Italiana all'Università di San Paolo. Dopo Sentimento del Tempo, il suo cammino poetico si stava avviando verso una calma maturità, verso il mondo del mito da sempre agognato, verso la sua "Terra Promessa", quando avviene il brutale intervento della "storia", che causa una lacerante frattura nella vita e nella poesia. Il viaggio verso La Terra Promessa, il poemetto iniziato nel 1932, viene interrotto dall'esperienza del Dolore segnata da una serie di tragici eventi che inizia con la morte in Brasile del figlioletto di nove anni. La parola poetica non riesce più a sciogliersi allora in "evocazione pura", ma si pietrifica in "una roccia di gridi". Impotente di fronte alla realtà della vita che rifiuta di essere sublimata, si tramuta in singhiozzo. L'assenza non è più vagheggiata lontananza del miraggio futuro e del mito del passato, è bensì “vuoto”, privazione, totalmente presente; desolazione che non può più "smemorarsi". Malgrado la tragedia subita, lo spirito umanistico di Ungaretti riesce a fare del soggiorno in Sud America proprio quella fonte di insegnamento e arricchimento spirituale. Ungaretti stesso spiegherà molti anni dopo come il suo "incontro" con il Brasile sia stato "importantissimo", tanto che disse di avere quattro patrie: “l'Egitto, perché vi ho imparato il segreto del deserto e della luce, perché è il luogo dove non sono valide se non immagini inventate dagli abbagli; l'Italia perché sono lucchese, di vecchio sangue toscano; la Francia perché in Francia mi sono formato insieme con gli uomini che sono stati protagonisti della poesia e dell'arte d'oggi in Europa; infine c'è il Brasile, poiché è il paese nel quale lo scontro fra natura e ragione, come dice Leopardi, o tra memoria e innocenza, come oso dire io, mi è parso più evidente.” Ogni patria, dunque, un arricchimento per l'anima e per lo spirito, ogni patria un'esperienza poetica. Ma quando, nell'incalzare della storia, gli echi della civiltà si vanno spegnendo fra gli orrori della II Guerra Mondiale, non è più il mito ad offrire il rifugio. "Ora che sono vani gli altri gridi", unica possibilità di rinascita è di prestare ascolto agli "echi fondi" della nostra millenaria tradizione, "all'impercettibile sussurro" dei morti:

Cessate di uccidere i morti, Non gridate più, non gridate Se li volete ancora udire, Se sperate di non perire. (Non gridate più)

Questo rapido excursus testimonia il progressivo ridursi del campo semantico del "grido poetico" di Ungaretti fino alla soglia disperata del silenzio. Il viaggio tuttavia continua verso altre esperienze esistenziali e poetiche, verso "deserti sempre più metafisici", verso la poesia ultima - ormai brevi lampi fra lunghi silenzi". Gli "Ultimi Cori per la Terra Promessa", inclusi ne Il Taccuino del Vecchio, sono del 1960, e sono le estreme testimonianze di vita e di viaggio del poeta. Negli ultimi anni della sua vita, infatti, Ungaretti cercava di dimenticare nei viaggi la sua solitudine. Il Taccuino del Vecchio (1952-1960) è il diario dell'angoscia della vita che declina, mentre si incupisce la consapevolezza della fugacità e della vanità del tutto. Alla crudeltà delle tappe bruciate, tuttavia, si contrappongono ancora gli ultimi palpiti di un cuore tenace, restio ad abdicare alla vita.

La poesia di Ungaretti ha coperto il periodo più tragico del nostro secolo, includendo nella esperienza della sua vita le due guerre mondiali. Eppure il suo canto ha saputo filtrare la tragedia attraverso la leggerezza degli spazi celesti, e l'anima vi respira un soffio cosmico. Il suo stile, assolutamente unico e individuale, è diventato il segno generale d'un'epoca. Alla morte del poeta, nel 1970, Giacinto Spagnoletti ha commentato che si è chiusa "un'epoca che ha creduto alla poesia quale necessità vitale". E come ha sottolineato sensibilmente Gianna Manzini, la sua poesia "aggiunge alla vita ciò che le manca, e di cui siamo inconsapevolmente assetati". Tanto potrebbe aggiungere ancora anche alla vita dei giovani d'oggi, così persa com'è in un allucinante presente, senza memoria.

 

Le poesie

 

IN MEMORIA
Locvizza il 30 settembre 1916.

Si chiamava
Moammed Sceab

Discendente
di emiri di nomadi
suicida
perché non aveva più
Patria
Amò la Francia
e mutò nome

Fu Marcel
ma non era Francese
e non sapeva più
vivere
nella tenda dei suoi
dove si ascolta la cantilena
del Corano
gustando un caffè

E non sapeva
sciogliere
il canto
del suo abbandono

L’ho accompagnato
insieme alla padrona dell’albergo
dove abitavamo
a Parigi
dal numero 5 della rue des Carmes
appassito vicolo in discesa.

Riposa
nel camposanto d’Ivry
sobborgo che pare
sempre
in una giornata
di una
decomposta fiera

E forse io solo
so ancora
che visse

 

Veglia     Cima Quattro il 23 dicembre 1915

Un'intera nottata

buttato vicino

a un compagno

massacrato

con la sua bocca

digrignata

volta al plenilunio

con la congestione

delle sue mani

penetrata

nel mio silenzio

ho scritto

lettere piene d'amore

Non sono mai stato

tanto

attaccato alla vita

 

Fratelli          Mariano il 15 luglio 1916

Di che reggimento siete

fratelli?

Parola tremante

nella notte

Foglia appena nata

Nell'aria spasimante

involontaria rivolta

dell'uomo presente alla sua

fragilità

 Fratelli 

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